IL PROGETTO

La salumeria nella storia

Seppur l’arte norcina nel nostro Paese sembra derivi dall’omonima città di Norcia, lungo tutto il perimetro e la storia dell’Italia, salumi e insaccati sono di casa. Se, come vedremo in seguito, i primi riferimenti ai salumi risalgono al faraone Ramses III, della XX dinastia egizia (1217 a.C. – 1155 a.C.), è già dal Neolitico che la trattazione del maiale si intreccia con la storia dell’uomo e viceversa, come dimostra la certosina indagine condotta dal paleontologo britannico John Desmond Clark (1916 – 2002). 

Nello specifico si lega all’agricoltura e ancor più all’allevamento, che vede l’uomo modificare il proprio stile di vita da nomade a sedentario.

Da altrettanti rinvenimenti collocati a Vulci (VIII sec. a.C.) e, in seguito anche a Forcello (IV sec. a.C.), nei pressi della località di Andes, si rende ancora più solida la convinzione che già in età etrusca l’allevamento fosse praticato in maniera simile e conforme alla pratica attuale. Le tracce scoperte in questi luoghi su un campione di circa di quarantamila resti animali, ben delineano la presenza di corpi di suini a cui erano stati amputati gli arti durante la pratica di macellazione e che si suppone venissero essiccati e predisposti alla vendita, come ancora oggi avviene per i nostri prosciutti. Per quanto riguarda la letteratura, si devono ad Ippocrate, padre della medicina Occidentale, i primi testi sulla trattazione del maiale e dell’elogio delle sue carni. In uno scritto del IV secolo a. C. Marco Porcio Catone – meglio conosciuto come Catone il Censore (234 – 149 a.C.) – nel suo “De Agricoltura” altrettanto esalta e ben identifica il perxuctus, lodandone il gusto derivato dalla metodologia di essicazione tramite l’ingente salatura. Anche in “Ab Urbe condita” (XXXV, 5, 49) di Tito Livio, il maiale i suoi derivati sono protagonisti di un banchetto interamente “ex mansueto sue factam” ovvero, ricavato dal mansueto animale. Ed inoltre, nel “Satyricon”, Trimalcione confessa a Petronio: “ch’io non abbia più a crescere di soldi, non di grasso, se tutta questa roba il mio cuoco non l’ha fatta dal porco“. 

Come ci è chiaro già in epoca romana la carne suina era ben presente sulle tavole imbandite di cui non mancavano ricette e accorgimenti per ottenere profumati salumi. Non solo tecniche di affumicatura e salatura del maiale ma anche una sorta di “promozione” di questo animale, concretizzata nella rinomata X Legio che sugli scudi dell’esercito romano portava l’effige del maiale selvatico. Altrettanto, Plinio il Vecchio riteneva “che da nessun altro animale si trae maggior materia per la ghiottoneria” se non appunto dal suino.

A proposito di guerra, è ai Longobardi, dopo la migrazione verso sud tra il II e il VI secolo d.C., che si deve la cosiddetta “Civiltà del Maiale” e la diffusione della cultura della norcineria. Come testimonia Marco Terenzio Varrone, in un’appendice dedicata ai popoli galli nel suo “De re rustica” (I sec. a.C.) è a loro che va riconosciuta una maggior esperienza in campo di trattazione del maiale e delle sue carni. Era, infatti, compito del pater familias occuparsi di porzionare le mezzene del suino e di salarne le parti, istituendo un vero e proprio modello di attitudine. Nelle terre che ora corrispondono alla Liguria, al Piemonte, al Veneto, alla Lombardia e a una porzione dell’Emilia-Romagna, durante il regno longobardo si assiste a un ingente aumento dell’allevamento e al conseguente consumo di carni stagionate ed essiccate, tanto da istituire un vero e proprio confine di delimitazione, ancora oggi evidente, tra Emilia e Romagna. Tutt’ora la scissione coinvolge oltre all’aspetto geografico anche quello riguardante il ripieno delle paste fresche, prevedendo una tradizione basata sull’utilizzo della carne di suino in Emilia, mentre in Romagna si predilige il formaggio di pecora e, a volte, erbette di stagione. 

È in epoca longobarda, dunque, tra il VI e l’VIII secolo d. C., che l’effettiva arte norcina vede concretizzarsi nelle prime spalle, pancette, salami e salsicce di derivazione dalla carne suina diventando una delle risorse alimentari più importanti e fruttifera. Il legame tra il maiale e l’uomo giunge fino al primo Medioevo dove si affinano le tecniche di preparazione che giungono a noi della coppa, del salame e della pancetta, grazie alle particolari condizioni favorevoli per l’allevamento.  Testimonianza di questa prolifica liason si ha da un documento importante presente nell’inventario del monastero bresciano di Santa Giulia, e risalente all’inizio del X secolo, che attesta la predominanza dell’allevamento dei suini, circa il 45% del capitale animale, rispetto ai volatili, nei possedimenti delle terre lombarde. Non solo, nella città di Firenze, nel XIV secolo, quattromila erano i buoi e vitelli, ottantamila gli ovini e trentamila i capi di maiale che provenivano dai boschi e dall’allevamento autoctono. Le folte macchie boschive e il clima temperato si dimostravano, dunque, ottime per la crescita del maiale allo stato brado, che ne permetteva lo sviluppo del grasso nobile. 

Altrettante testimonianze della storica suinicoltura e annessa lavorazione, risiede nel parmense dove all’interno dell’Abbazia di San Colombano di Bobbio, in Val Trebbia, la pratica della macellazione del maiale è raffigurata in un mosaico del XII secolo. Analoga rappresentazione è presente anche nella cripta della Chiesa di San Savino.  A Piacenza stessa abbiamo tracce della pratica della norcineria anche nel testo di Giulio Landi che nelle sue “Formaggiate di sere stentato”, edito nel 1542, racconta come i salumi e la trattazione del maiale autoctona, fosse parimenti importante e diffusa come negli altri paesi italiani, oltre che a Norcia. L’arte norcina, perché proprio di un’arte si tratta, tramandata di generazione in generazione è citata anche nel trattato di agronomia “Le vinti giornate d’agricoltura et de piaceri de la villa“, del 1569, di Agostino Gallo, il quale sostiene che “si debba tenere de’ porci per ammazzarli grassi al tempo del freddo per bisogno de la famiglia & de’ lavoratori“.

Non solo in ambito letterario è argomentata ed approfondita la relazione tra maiale e uomo, nelle cattedrali dalla Sicilia al nord Europa, il suino ricopre un ruolo importante nella calendarizzazione delle tradizioni contadine: in varie raffigurazioni pittoriche i mesi di novembre e di dicembre erano dedicati alla macellazione e alla lavorazione del maiale. Una sorta di calendario didattico come anche citato da Bonvesin de la Riva nel suo “Tractato dei mesi” e in egual misura da Folgòre da San Gemignano nei “Sonetti” dove esplica come al mese di dicembre si attribuisse l’importanza di riunire i suddetti impieghi.  Al maiale inoltre era conferita una vera e propria funzione diplomatica: il cardinale piacentino Giulio Alberoni riuscì ad ottenere la benevolenza del Duca de Vendôme proprio grazie all’intrinseca capacità seduttiva dei salumi, come ad esempio del salame, di cui abbiamo traccia nel carteggio intercorso tra l’Alberoni stesso e Ignazio Rocca. Al contrario il maiale i suoi derivati potevano essere occasione di contesa e dunque dell’imbolamento – e cioè il furto – di cui parla anche Boccaccio nell’VIII novella della sesta giornata del “Decameron”. Altrettanto, fare razzia di porci dalle terre nemiche poteva essere contemplato come parte del bottino di guerra, come si evince dalla novella XXXIX del “Trecentonovelle” di Franco Sacchetti.

Un altro punto fondamentale riguardante l’arte norcina è l’utilizzo delle spezie.

Il loro impegno nelle lavorazioni di stagionatura e lavorazione delle carni ricopre un ruolo di identificazione sociale nella storia dell’uomo. Infatti già col nome, dal latino species che significa “speciale”, ci si riferiva a merci non comuni, quasi straordinarie. Straordinarie perché non appartenevano all’uso quotidiano e non di prerogativa autoctona, provenivano, invece, da viaggi in Oriente ed erano sinonimo di un’agiatezza che potevano permettersi solo i nobili e le classi più abbienti. Simbolo di benessere, le spezie, erano dunque utilizzate in quantità proprio come riprova e ostentazione del possederle. Di eguale importante era l’utilizzo del sale nella conservazione e nella trattazione del maiale, di cui la città di Cervia era dispensatrice e da cui si diramava in tutta il nord d’Italia. 

Ma la lavorazione delle carni subisce una vera svolta, già in età antica, dal momento in cui si “scopre” come il budello stesso del suino potesse essere l’involucro e dunque centrale nel confezionamento a seguito della macellazione. È proprio grazie all’assunto che “del maiale non si butta via niente”, e che dunque nel suino stesso sia contenuto tutto ciò che necessita per ottenerne i pregiati salumi, che si cominciò ad attuare la pratica dell’insaccato. Nel “Libro della Cocina” da parte di un anonimo toscano, compare per la prima volta, nel XIV secolo, l’utilizzo di questa particolare tecnica e dunque “rivoluzione”, descritta come “budelli di porco o vitella tu li puoi empire di grasso porcino e altre carni, con spezie ed erbe odorifere”.

Non si soleva dunque insaccare soltanto con il budello di maiale ma anche con la cotenna: se ne ha traccia nel 1511, dove a Mirandola a seguito dell’assedio della città, e prospettandosi un periodo di carestia, gli abitanti cominciarono a preparare quelli che ancora oggi chiamiamo cotechini e successivamente a insaccare con le zampe del maiale, da cui lo zampone. Entrambi questi salumi vedono la necessaria presenza e capacità intrinseca di conservazione e di gusto che spetta alle, già citate spezie, a cui si riferisce lunario modenese del 1866, che li identifica come “aromi polverizzati, cannella regina, macis, pepe garofanato, noce moscata, pepe forte franto”.

Per quanto riguarda la diffusione di un altro salume tradizionale dell’Emilia o meglio tipico di Bologna, la mortadella, si deve a Ovidio Montalbani, medico e filosofo del XVII secolo. In un bando emanato dalla città di Bologna nel 1661, la caratteristica realizzazione unicamente con carne di maiale di questo salume, era chiaramente e tassativamente rispettata, pena esemplari punizioni e castighi. Seguì, nel provvedimento successivo, del 1720, l’attribuzione, ad esclusiva detenzione dei, già citati, salaroli della città, della ricetta tradizionale e originale. 

Tornando alla storia del salame e alle sue origini, è dal testo “La storia del felino” di Alda Tacca, che riusciamo a focalizzare le tappe fondamentali dell’evoluzione dell’arte norcina.

Le prime raffigurazioni di questo salume si hanno già in epoca egizia, all’interno della tomba a Tebe, nel 1166 a. C., del Faraone Ramsete III. Altrettanto, in epoca greca e romana, tracce della comprovata presenza e apprezzamento del salame risiedono nell’etimologia del termine “luganiga”, di cui “lucanicus” e dunque proveniente dalla Lucania. Nella lastra dedicata al segno zodiacale dell’Acquario, all’interno del Battistero di Parma (1196 – 1307) spiccano due manufatti che hanno tutto l’aspetto di salumi e più precisamente possono essere ricondotti al Salame Felino, di cui ancora oggi ne conosciamo il pregio. Se sulla comprovata presenza di raffigurazioni dall’effige di salame non v’è dubbio riscontro, è nella provenienza e nell’origine della parola stessa che si raffrontano varie possibilità. La prima ipotesi riguarda la provenienza dal termine “salamme” che compare per la prima volta, nel 1560, come se ne può leggere riferimento sul Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli. Questa attribuzione fu però anticipata da un testo datato 1436 che narra di un soldato alle dipendenze del Duca di Milano che avrebbe richiesto “porchos viginti a carnibus pro sallamine“, ovvero venti porci la cui carne fosse adatta per fare i salami.

Se fino alla fine del 1400 era più comune riferirsi a questo salume con il termine  botulus o insicia, la seconda ipotesi di provenienza del termine che lo identifica è da ricercare nel legame che corre tra salame e ciò che lo insaporisce. A Bologna già dal XIII secolo erano varie le corporazioni attive. Due spiccano per la nostra storia sui salumi: la prima dei salaroli che si aggregò ufficialmente nel 1294 quando già contava, tra i suoi iscritti, ben 281 professionisti, e l’altra dei lardaroli, da cui nacque il termine salamen, decretata da “Il trinciante”, testo sulla cucina, datato 1581, ad opera di Vincenzo Cervio. Ma è tornando al testo di Alda Tacca, che ne evinciamo come i salumi fossero presenti anche a ai banchetti di corte, nello specifico il salame felino non manca affatto sulle tavole dei Farnese, dei Borbone e della Duchessa Maria Luigia, fino ad avere più importanza e valore economico del prosciutto. Attribuito allo stesso periodo storico è il poemetto giocoso di Antonio Frizzi, “La Salameide”, edito a Venezia nel 1772, che ne esplica l’attinenza con la salama da sugo ferrarese e la comprovata duttilità della carne suina presente in luculliani banchetti che “in tante forme si tramuta, e parte/ la carne del porcel nel porchicidio/ che fa trasecolar la magic’arte.

La prossimità in cui si soleva pasteggiare a salumi non riguardava solo la stessa vicinanza territoriale. La funzione del sale era infatti quella di permettere ai salumi di poter essere trasportati e conservati. Sono presenti testimonianze di come i prodotti della lavorazione del maiale fossero gustati lontano dalle zone di produzione degli stessi come si evince dai documenti rinvenuti presso gli Archivi di Stato di Genova. Dagli stessi emerge come tra il ‘700 e l’800 i corsari genovesi stivassero le navi di salumi come i prosciutti provenienti dall’Emilia e dal Veneto. Queste regioni, foriere dei primi modelli di laboratori alimentari e manifatture di produzione di salumi, potevano dunque permettersi di esportare i propri prodotti anche al di fuori del Bel Paese, grazie anche a due testimonial ante litteram, Gioacchino Rossini e Niccolò Paganini. Ma è con la rivoluzione industriale che il salame vede sempre maggiore diffusione. 

Grazie infatti alla trasformazione industrializzata delle materie prime, anche la norcineria assiste al suo massimo sviluppo, fino al culmine negli anni ’80 ed al conseguente boom economico del dopoguerra. Sarà in risposta alla stessa industrializzazione che, sul finire del secolo, si verificò una vera e propria inversione di intenti, promuovendo un ritorno all’artigianalità dell’arte norcina e a un consumo più consapevole e ridotto, trend ancora attuale, peraltro, a tutti i livelli dell’alimentazione.

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