IL PROGETTO

Il benessere animale: una questione aperta

Nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando dalle 45 milioni del 1950 alle 233 milioni di tonnellate del 2000. Con questa crescita è lecito supporre che, entro il 2050, le tonnellate di carne  ad uso e consumo dell’uomo andranno oltre le 300 milioni. 

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IL PROGETTO

Il benessere animale: una questione aperta

Nella seconda metà del Novecento il consumo globale di carne è aumentato di 5 volte, passando dalle 45 milioni del 1950 alle 233 milioni di tonnellate del 2000. Con questa crescita è lecito supporre che, entro il 2050, le tonnellate di carne  ad uso e consumo dell’uomo andranno oltre le 300 milioni. 

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Un’indagine, promossa dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) del 2017 rileva, inoltre, che sono circa 1 miliardo le persone che dipendono dal mondo animale quale fonte di reddito o di cibo diretto, determinando un impatto ambientale impensabile: la zootecnica, infatti, è uno dei fattori primari di consumo di risorse alimentari e idriche, inquinamento delle acque, uso delle terre, deforestazione, degradazione del suolo ed emissioni di gas serra visto, che sola, coinvolge circa 3,5 miliardi di ettari di terra, ovvero il 26% delle terre emerse. 

Questo modello produttivo che, per l’enormità delle sue proporzioni non è, ovviamente, sostenibile, sta già mostrando i suoi effetti catastrofici per il Pianeta e, con lui, per l’uomo, non solo a lungo ma anche a breve, brevissimo termine. L’allevamento intensivo, infatti, incide sull’utilizzo delle risorse non rinnovabili (acqua e terra) il cui sfruttamento contribuisce sensibilmente ad acuire l’inesorabile riscaldamento climatico. 

In seno a questa cornice s’è ravvivato, dunque, il dibattito sul benessere animale incominciato in seno alla fine dell’illuminismo e all’inizio del romanticismo: correva, infatti, il 1776 quando il sacerdote inglese Humphrey Primatt firmò una celebre dissertazione volta a incoraggiare il dovere di misericordia e a scongiurare il peccato di crudeltà verso gli animali, seguita nel 1822 dal Cruel Treatment of Cattle Act del parlamentare irlandese Richard Martin, tra i fondatori della prima organizzazione mondiale in materia – Society for the Prevention of Cruelty to Animals – che, nel 1840, otterrà la benedizione della regina Vittoria. 

Negli Stati Uniti, invece, solo dal 1951 è attivo l’Animal Welfare Institute il cui lavoro è dedicato alla riduzione della sofferenza animale causata dall’uomo secondo un’attività a 360° che include, ma non si esaurisce, nell’industria alimentare. A livello europeo bisognerà ifine attendere il 2007 per vedere formalizzati, col trattato di Lisbona, i diritti animali, considerati come esseri senzienti e, di conseguenza, meritevoli di politiche indirizzate al loro benessere. 

Nasce così l’Animal Welfare che contempla, nel suo protocollo, interventi in materia di trasporto, farmaceutica e, più in generale, etica animale. Sull’industria farmaceutica, in particolare, si direziona l’occhio di bue della Comunità europea alla luce soprattutto di un rapporto che ha stabilito come, solo in Germania, a fronte di 300 tonnellate di antibiotici destinati all’uomo 1700 sarebbero, invece, le tonnellate destinate ad uso veterinario preventivo: una pratica, questa, che ha conseguenze gravissime in ambito biomedico ed evolutivo. 

Nel 2011 il Farm Animal Welfare Council (FAWC), un organo consultivo indipendente, ha dunque istituito un protocollo contenente cinque libertà animali inalienabili, che riassumiamo come la libertà dalla sete, dalla fame e dalla malnutrizione; la libertà dal disagio mediante la predisposizione di un ambiente appropriato; la libertà dal dolore mediante prevenzione e rapida diagnosi e trattamento; la libertà di esprimere comportamenti specie-specifici del regno animale mediante la predisposizione di spazi e strutture adeguate; la libertà da paura e angoscia garantendo condizioni di vita e trattamenti che evitino sofferenze sia fisiche che mentali. 

Così, su ordine della Commissione Europea nasce il primo centro di riferimento, con sede in Olanda, dedicato al benessere dei suini: un’istituzione che ha propiziato la nascita, in Italia, dell’Organizzazione di produttori e allevatori di suini (Opas) che prevede politiche di sensibilizzazione e formazione del personale coinvolto nonché l’imperativo di contemplare solo suini nati, allevati e macellati in Italia. A ciò si unisce, poi, l’istituzione di elevati standard d’igiene e sanità, propedeutici a proteggere l’allevamento da infezioni e malattie trattate mediante una politica farmacologica mirata, ovvero solo in caso di comprovata necessità. 

Oggi, la nascita di questo nuovo tipo di etica, incoraggiata dal circolo virtuoso innescato, sta peraltro attirando anche specifici investimenti come dimostra il Fairm Animal Investment Risk & Return (FAIRR) promosso nel 2015 dalla Jeremy Coller Foundation di Londra: una rete internazionale di investitori che ha inserito l’Animal Welfare in un contesto ambientale, sociale e di governance. Tra le ultime attività la fondazione ha esatto da McDonald’s e Burger King maggior impegno nella riduzione dell’impatto ambientale delle loro filiera, in particolar modo in tema di emissioni di CO2 e di utilizzo dell’acqua. 

Altri strumenti sono poi ricavati dalla gerarchizzazione di indici concepiti per stilare le classifiche delle aziende più virtuose, come stabilito nel 2012 dal Business Benchmark on Farm Animal Welfare (BBFAW) che misura appunto come si comportano le aziende mondiali del settore food tra produzione, distribuzione e ristorazione. 

Nell’ultimo rapporto, relativo al 2017, sono state analizzate 110 aziende, fra cui sei italiane, ed è stato evidenziato con cristallina evidenza che le aziende in crescita – ad oggi sono 17 mentre nel primo rapporto, del 2012, erano 3 – siano quelle che considerano l’Animal Welfare una priorità nella propria strategia di business. 

Nel report emerge poi un elemento determinante: a detta delle società interpellate, infatti, il principale fattore che spinge le aziende a migliorarsi sulla questione dell’Animal Welfare è la domanda dei consumatori e, solo in seconda istanza, l’attenzione dei media e la pressione di eventuali ONG, confermando uno dei grandi assunti dell’economia classica: ovvero che è la domanda a determinare, qualitativamente, la propria offerta. 

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